lunedì 9 aprile 2012

Elliott Murphy

(Garden City - NY, 1949)

"Elliott Murphy è così sfigato che non ha neanche le physique du role dello sfigato". Era, fra i "nuovi Dylan", giovanotti di belle speranze che ad inizio anni '70 nutrirono le speranze più che altro delle case discografiche. Quattro-cinque dischi splendidi, fatti con quattro case discografiche diverse, ed un caratterino ideale per stroncarsi la carriera. Niente eccessi, droghe o altre cose, solo una grave carenza di fermezza (di cui era invece notoriamente ben dotato Springsteen). Ottime canzoni, comunque, un periodo buio a fine anni '80, il trasferimento a Parigi per metter su famiglia, e da fine anni '90 una ripresa di carriera che lo vede perennemente on the road e a sfornare un disco ogni anno (anche se quelli dal 2005 in poi non sono questo gran che).

Last of the rockstars (1973)
Una di quelle canzoni che tutti vorrebbero aver scritto, nonché una delle migliori "lato 1 traccia 1" di un disco d'esordio. La mitologia del rock, in un periodo in cui stava per morire. C'era già il Mercer Center for Arts, i New York Dolls, e da lì a poco avrebbe aperto il CBGB.

You never know what you're in for (1975)
Canzone sul senso della vita che fa sempre il suo porco effetto. Qui in versione acustica live.

Diamonds by the yard (1975)
Sempre da "Night Lights" (che dava anche il titolo alla rubrica che teneva sul Mucchio Selvaggio negli anni '90).  La copertina del disco ritrae un venticinquenne Elliott hipster in Times Square alle quattro del mattino, "l'unica ora del giorno", ricorda, "in cui non ci fossero in giro junkies, pushers, pimps and hookers", cioè i tossici, spacciatori, puttane e papponi che allora la popolavano e che sono citati in "You never know...".

Isadora's dancers (1975)
"Piove, a San Francisco, e penso che andrò a vedere uno spettacolo porno, perché è buio, e freddo e solitario ed è il punto più distante dall'amore a cui si possa arrivare". Non sono tantissimi a saper scrivere con questa disillusione.

Summer House (1977)
"La letteratura è la mia religione, ma il rock and roll è il mio vizio". Specialmente Francis Scott Fitzgerald, che è spesso presente nelle sue canzoni, e questa, senza citarlo espressamente, parla di un'estate con una Zelda sempre più sopra le righe.

Fall of Saigon (1982)
Capitano, è finita, saltiamo su una jeep e andiamo a vedere la caduta di Saigon.


Dusty Roses (1982)
E' tutto finito, i sogni di gloria sono svaniti, e lei le sue rose polverose non le vuole più non sopporta il suo cinismo che mescola la bellezza alla tragedia.

Niagara Falls (1984)
Una ex che gli manda una cartolina, sbagliando indirizzo, e, dice lui, ora che fai la spogliarellista lo sanno tutti che hai un tatuaggio di noi che ci buttiamo in un barile già dalle Cascate del Niagara. Grandi pezzi con pessimi arrangiamenti di plastica anni '80 fatti da Jerry Harrison dei Talkin' Heads.

On Elvis Presley's Birthday (1990)
Una canzone di ricordi, del padre che amava Elvis e che lo portava con sé a comprare le forniture per il locale che gestiva a Long Island, in una New York onirica, una unreal city dove, quando sei solo, puoi essere tutto quello che vuoi. Una canzone molto significativa per Elliott appena trasferitosi a Parigi.

Somebody's Anniversary (1998)
Sarebbero stati sedici anni oggi, ma in fondo, ogni giorno è l'anniversario di qualcuno.


giovedì 5 aprile 2012

Iain Matthews

(nato Ian McDonald, Scunthorpe, UK, 1946)

Quasi uno degli eroi di Woodstock. Nel senso che lui non c'è andato, ma ha fatto la cover (più famosa dell'originale) della canzone di Joni Mitchell che parla del sogno hippy. Una carriera vagabonda, fra Europa e USA, costellata come sempre di critici entusiasti e pubblico che premia solo le cose più commerciali. Una voce eccezionale, un gusto per la scrittura pop notevole, e una capacità di stupirvi per quanto vi possa piacere questo omino inglese ormai invecchiato.

Woodstock - 1970 (coi Matthews Southern Comfort)
Cover di Joni Mitchell di cui si diceva sopra. Probabilmente la sua cosa più famosa, al punto che molti la prendono per sua.

Even the guiding light - 1972 (coi Plainsong)
A chiusura di un concept album su Amelia Earhart, prima leggendaria aviatrice a tentare il giro del mondo, c'è questa, allegra e speranzosa.

Shake it - 1979
Con quella vena nella voce anche un pezzo pop fine anni '70 (anche questo una cover!) diventa bellissimo.

Sight Unseen - 1997
Pezzone riflessivo per chi si sente vecchio.

lunedì 2 aprile 2012

Frank Turner

(Manama, Bahrein, ma in realtà di Meonstoke, Winchester, 1981)

Una delle giovani speranze del cantautorato inglese. Per alcuni l'erede di Billy Bragg, per altri addirittura di Joe Strummer. Certo è che in un periodo in cui la musica veleggia alta verso il disimpegno e il personale fare la scelta coraggiosa di sciacquare i propri panni punk hardcore nel pop più efferato e tirarne fuori un misto intelligente e coraggioso ed imbarcarsi in lunghissimi tour con una passione come quella di Frank Turner non è cosa comune, e il fatto che gli stia arridendo un certo successo ridà speranza nel mondo. Frank Turner è molto intelligente e di buona famiglia (ha studiato a Eton ed è laureato in Storia dell'Economia alla London School of Economics) ed ha pubblicato finora quattro album solisti dopo la carriera molto underground con i Million Dead, in cui più che cantare strillava ma con cui ha avuto un discreto successo di genere.
Per dare un'idea del personaggio vi basti il racconto del suo primissimo concerto in Italia: "Era il 2005, e i Linea 77 che erano a Londra per delle date promozionali ci chiesero di aprire per un loro concerto a Milano. Noi accettammo a cuor leggero, ma quando ci trovammo davanti a qualche migliaio di persone la nostra sicurezza iniziò a vacillare. Allora chiesi al mio amico Ugo di insegnarmi qualche parola in italiano, e lui me ne insegnò una dicendo che tutti mi avrebbero adorato. E così quella sera salii sul palco e salutai il pubblico: Buonasera, porcodio!".

Once we were anarchists (2005)
"Una volta eravamo anarchici, poi i cortei si son fatti noiosi, il governo evidentemente ci ignorava, e se la Rivoluzione non mi vuole, chi se ne frega". Ci siamo passati in molti, e gli diamo ragione tutti.

The ballad of me and my friends (2005)
"E se vi importa solo di arrivare, prendete l'aereo. Andremo all'inferno, ma avremo un sacco di storie da raccontare". Una ballata sugli anni selvaggi, un po' il contraltare della precedente.

Thatcher fucked the kids (2007)
"Quando incrocio qualcuno più giovane di me controllo di avere ancora portafoglio, telefono e chiavi. Colpa del Thatcherismo, che ha insegnato ai bambini a fottersene di tutto e di tutti".

Heartless bastard motherfucker (2007)
Al diavolo il buonismo: io sono uno stronzo ma almeno lo ammetto, mica faccio finta.

Photosyntesis (2008)
Come dire, ci meritiamo tutto. Una canzone sul trovare il proprio equilibrio, sul far compromessi ma senza rinnegarsi. "I won't sit down, and I won't shut up". E un video sul divertirsi come bambini.

Reasons not to be an idiot (2008)
Qui il Turner ritrova la vena punkettosa, ma melodica. Un inno contro la depressione amorosa e lo starsene svaccati sul divano.

Long live the Queen (2008)
Quando un'amica muore giovane ci sono due tipi di canzone che si possono fare: una  strappalacrime, o un inno che ne porti avanti il ricordo e le idee. Eccole tutte e due. Non strappa le lacrime per la musica, ma per chi segue il testo c'è un momento in cui non si può restare impassibili.

The Road (2009)
"La mia grande paura è sempre stata quella di essere costretto a rimanere sempre nello stesso posto, per cui sono sempre trovato un posto vicino alla porta".

Peggy sang the blues (2011)
Nonna Peggy cantava il blues ed era un bel tipino. Ottimo pretesto per affermare che non importa da dove vieni, ma dove vai, e che non si viene certo ricordati per quel che non si è fatto.

Glory Hallelujah (2011)
La buona notizia è che Dio non esiste. E quel che è ancora meglio, possiamo battere le mani tutti insieme.